Le ragioni del SI al referendum di domenica 17

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Dopo le ragioni del No indicate da Patrizia Cibin, varie posizioni su votare o astenersi, provo io a presentare le ragioni del SI al referendum, o meglio le mie ragioni a favore del SI.

La questione referendaria  è la seguente:

Volete voi che sia abrogato l’art. 6, comma 17, terzo periodo, del decreto legislativo 3 aprile 2006, n. 152, “Norme in materia ambientale”, come sostituito dal comma 239 dell’art. 1 della legge 28 dicembre 2015, n. 208 “Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato (legge di stabilita’ 2016)”, limitatamente alle seguenti parole: “per la durata di vita utile del giacimento, nel rispetto degli standard di sicurezza e di salvaguardia ambientale”?

Si è parlato in queste settimane di posti di lavoro perduti, di fermare le trivelle, di necessità di politica energetica, di inquinamento, in realtà la richiesta puntuale chiede se vogliamo abolire una frasetta all’interno della legge di stabilità appena approvata a fine 2016, una richiesta che però nasconde un punto di principio importante:

è legittimo assegnare una concessione
(cioè un bene comune di tutti i cittadini)
senza limite di tempo ?

A mio avviso no, per questo domenica voterò SI, certo, mi rimane l’amarezza di come la discussione pubblica si sia spesso scontrata invece che confrontarsi, magari anche su argomenti importanti ma che non centrano direttamente con la questione referendaria.

Intanto questo referendum non ferma nessuna trivella, anche se vincessero i SI si tornerebbe alla legge di prima, qualche concessione più vecchia scadrà a breve, altre camperanno ancora vent’anni. Per lo stesso motivo non vedo come possano essere messi in crisi tutti i posti di lavoro del comparto, considerando che il referendum, oltretutto, riguarda solo una minoranza di concessioni, quelle entro le 12 miglia, che estraggono circa l’1% delle necessità nazionali di petrolio e il 3%di Gas, con buona pace delle necessità energetiche del Paese, Petrolio e Gas oltretutto non di proprietà nazionale ma di proprietà delle compagnie che hanno, appunto, in capo la concessione.

Ultima è la questione inquinamento (magari condizionati da recenti fatti di cronaca) che ancora non è chiaro se è meglio estrarre localmente o importare con le petroliere, ma anche questo non lo decideremo domenica.

Il referendum chiede se vogliamo che le concessioni durino per la durata di vita utile del giacimento, di fatto, dal punto di vista dello sfruttamento della risorsa, per sempre, con lo stesso soggetto che le ha in concessione ora.

In Europa la regolamentazione in cui rientrano le concessioni demaniali, è demandata alla direttiva Bolkenstein (2006/123/CE) che regolamenta il libero accesso al mercato, la concorrenza, la libera circolazione dei servizi e la fiducia tra gli stati.

La direttiva, approvata nel 2006, è stata recepita dall’Italia a fine 2009 (DL 194/2009 ) e inizio 2010 (DL 59/2010) ma già prima di ciò la UE ha contestato all’Italia delle violazioni normative relative alla libertà di stabilimento, trasparenza delle procedure di assegnazione e rinnovo automatico sulle concessioni relative agli stabilimenti balneari.

Dopo la contestazione l’italia ha recepito la regolamentazione europea ma ha prorogato le concessioni demaniali prima a dicembre 2015 e,  successivamente, al 2020 tornando sotto attenzione dell’Europa a seguito di ricorsi del TAR della Sardegna e del TAR della Lombardia con una recente esternazione dell’avvocato Generale della Corte di Giustizia Europea Maciej Szpunar che ha definito il provvedimento contrario al diritto europeo, di fatto, anche se non vincolante, consigliando una nuova bocciatura della legge italiana. E si parla di proroghe alle concessioni, non di concessioni a tempo indeterminato.

E l’Italia fu già condannata, con sentenza C-326/07/2009, dalla Corte di Giustizia dell’Unione Europea per la detenzione della cosiddetta “Golden Share” (poteri speciali di controllo pur senza la maggioranza delle azioni in aziende strategiche) su ENI, ENEL, Telecom Italia e Finmeccanica costringendo il governo a recepire la modifica poi ratificata – nel caso dell’ENI – dal proprio Consiglio di Amministrazione come spiegato anche sulle FAQ agli azionisti sul sito dell’ENI stessa. Eppure continuiamo a non voler capire.

Eppure l’art 12 (commi 1 e 2) della direttiva Bolkenstein è piuttosto chiaro:

1. Qualora il numero di autorizzazioni disponibili per una determinata attività sia limitato per via della scarsità delle risorse naturali o delle capacità tecniche utilizzabili, gli Stati membri applicano una procedura di selezione tra i candidati potenziali, che presenti garanzie di imparzialità e di trasparenza e preveda, in particolare, un’adeguata pubblicità dell’avvio della procedura e del suo svolgimento e completamento.
2. Nei casi di cui al paragrafo 1 l’autorizzazione è rilasciata per una durata limitata adeguata e non può prevedere la procedura di rinnovo automatico né accordare altri vantaggi al prestatore uscente o a persone che con tale prestatore abbiano particolari legami.

ed indica, quando le risorse sono scarse, l’obbligatorietà di procedure di selezione trasparenti, durate limitate adeguate, impossibilità di rinnovo automatico e vantaggi per il prestatore uscente.

Poi si può sempre contestare l’Europa (e da europeista convinto sempre un po’ me ne dispiace) ma chiediamoci se possiamo essere sempre il paese delle eccezioni e mai quello delle regole uguali per tutti.

Naturalmente non mi sfugge il significato politico che molti hanno voluto dare al referendum, pro o anti-governativo, pro o anti Matteo Renzi, ma il punto rimane la questione puntuale posta dal quesito referendario.

Sul tema idrocarburi però alcune cose posso essere approfondite, giusto per capire, quanto rendono le concessioni allo Stato, ho già provato a dare qualche risposta a puntate sul mio blog, ne ripropongo una sintesi qui.

Le nuove concessioni entro le 12 miglia sono già vietate, proprio dalla legge di stabilità 2016, quindi attualmente la legge non vieta, e non lo vieterà neppure dopo l’eventuale vittoria dei SI, alle compagnie petrolifere, in primis l’Eni, di chiedere nuove concessioni oltre le 12 miglia.

Attualmente il referendum riguarda 21 concessioni su 66 (45 sono oltre le 12 miglia) per un totale di circa 130 piattaforme di cui 92 piattaforme entro le 12 miglia e 43 oltre, ma non tutte stanno andando a scadenza, le prime che andranno scadenza sono degli anni 70, scadranno a breve e potranno essere rinnovate solo per altri 5 anni, le ultime scadranno tra vent’anni.

No-Triv01

Chiaramente costa meno fare ricerche e piattaforme entro le 12 miglia ma questo non sarà comunque più possibile in quanto vietato proprio con la stessa legge di stabilità 2016, ma, oltre le 12 miglia, dove è possibile fare ricerche ?

Aree per nuove ricerche

A partire dal 1967 (Legge 613 del 21 luglio) la nostra piattaforma continentale è stata suddivisa in diverse zone marine (da A a G) nelle quali è possibile effettuare ricerca e coltivazione di idrocarburi (in rosso nella mappa a sinistra).

Ma, attualmente, gran parte delle estrazioni avvengono nell’Adriatico dove la presenza di idrocarburi è certa mentre fare prospezioni in altre zone di mare è costoso, e il rapporto fra costi e benefici è importante ai fini di un investimento.

Concentriamoci quindi sul rendimento, si argomenta che il caso ideale sarebbe per il nostro Paese l’indipendenza energetica, ma è davvero questo il punto ?

Molti pensano che gli idrocarburi estratti in Italia siano dello Stato e che questi quindi riducano tout-court la necessità dell’equivalente acquisto dall’estero, ma in realtà non è così. Il petrolio estratto in Italia è delle compagnie che lo estraggono – Naturalmente l’ENI fa la parte del leone ma esistono concessioni anche per compagnie estere; Shell, Total, Edison, Northern petroleum,  Rockhopper – che hanno ottenuto delle concessioni grazie alle quali hanno fatto ricerca e/o poi costruito gli impianti estrattivi per lo sfruttamento – la cosiddetta coltivazione.

Ciò che incamera lo Stato non è il gas o il petrolio ma sono i canoni di concessione, le tasse sul reddito e, nel caso del’ENI, i dividenti sulle quote azionarie di cui possiede circa il 30%.

I cittadini e le aziende gas, petrolio e derivati, li comprano sul mercato spesso – tra l’altro – oberati di accise.

Il calcolo è quindi complesso perché vanno considerate le entrate da canone (le royalties), che sono diverse per i permessi di ricerca e per i permessi di coltivazione diverse in terra e in mare, ma che rappresentano di fatto quanto le compagnie pagano per utilizzare i beni comuni, e le entrate per le diverse voci di tassazione, legate alla generazione di reddito.

A queste si potrebbero aggiungere le entrate da partecipazione azionaria che però valgono su tutti gli utili, anche fatti all’estero, e che nel caso dell’ENI – molto indicativamente e al netto di altre questioni contabili o finanziarie – nel 2016 dovrebbero rendere allo Stato poco meno di 900mln/€ (30,10% del capitale, 3.634.185.330 azioni ordinarie, 0,80€ dividendo proposto per azione). Teniamo anche presente che gli investimenti iniziali dell’ENI – che oggi alcuni vorrebbero completamente privatizzata – sono stati fatti completamente con i soldi pubblici.

Infine bisognerebbe valutare cosa invece lo Stato spende in sussidi, perché in questo ricco settore pare ci siano anche ricchi sussidi pubblici, secondo una ricerca ODI (Overseas Development Institute) l’Italia ha speso (2013-2014) 984mln/$ per il settore upstream (ricerca ed estrazione) e ben 3.457mln/$ per il settore downstream (raffinazione, distribuzione e vendita) perun totale di ~3.290mln/€ di sussidi.

Ma torniamo a parlare di concessioni e tasse, secondo uno studio di Nomisma Energia, disponibile presso il Ministero dello sviluppo economico, il settore genera circa 200 milioni di euro/anno di royalties, con una prospettiva di crescita fino a 600 milioni di € (in realtà il grafico sembra indicare una stima di 900 min/€) ed un incremento occupazionale di 34mila addetti, se si aumentano le opportunità di ricerca e coltivazione, mentre le entrate da tassazione che hanno avuto il loro picco nel 2008 (per l’alto prezzo del petrolio) intorno ai 1,2 miliardi di euro,  hanno potenzialità di crescita, secondo Nomisma, fino a 2mld/€ anno.

Lo studio analizza in dettaglio le componenti di concessione e di tassazione evidenziando come in Italia gli investimenti sono frenati da un trasferimento verso lo stato per le compagnie del settore mediamente più alto che negli altri paesi, ma di questo trasferimento è mediamente più bassa la componente royalties mentre è notevolmente più alta (e articolata) la componente legata alla tassazione sul reddito ed i costi indotti legati alle lungaggini burocratiche.

Cioè le compagnie del settore spendono poco per sfruttare i beni comuni dal 4% minimo per la coltivazione (produzione) di petrolio a mare al 10% per la coltivazione a terra (7% di royalties + 3% da destinare al fondo idrocarburi per la diminuzione del costo alla pompa dei territori soggetti ad estrazione). Altri Stati non hanno le royalties ma applicano una tassazione più elevata.

La domanda potrebbe quindi essere:
2 mld di €/anno tra royalties e tasse sono tanti o sono pochi ?

Certo in termini economici è meglio averli che perderli ma se facciamo un confronto – puramente indicativo – prendendo a riferimento il Bilancio semplificato dello Stato, che per l’anno 2016 indica come valore delle Entrate (Tributarie+extra tributarie+altre) di 567.417 Mld € è come se vi offrissero di montare un cartellone pubblicitario nel vostro giardino, che comunque vi da fastidio e non vi permette di coltivare ovunque l’insalata, per 15€ l’anno, ma voi accettereste ?

E 2mld è una stima, oggi in realtà siamo sotto il miliardo di euro l’anno quindi l’utilizzo da parte di terzi del vostro giardino vi porta in tasca meno di 7 euro e mezzo.

Certo bisogna anche considerare l’impatto occupazionale ma qui i conti sono più complicati se consideriamo che l’abbassamento del costo del petrolio ha già messo in crisi il settore e messo a rischio l’occupazione del settore senza peraltro portare significativi miglioramenti alle previsioni di crescita negli altri settori di un Paese grande importatore, ci ritorneremo.

L’altra questione riguarda invece l’indipendenza energetica.

L’età dell’abbondanzacome cambia la sicurezza energetica” è il recentissimo rapporto dell’ISPI – Istituto per gli studi di politica internazionale – che mette in rilievo come il mondo dell’energia sia in continuo fermento, di come il prezzo alto del petrolio ha favorito la ricerca di soluzioni alternative come l’estrazione di gas dalla frantumazione (fracking – devastante dal punto di vista ambientale) delle rocce di scisto, che ha creato una nuova economia da zero (shale gas revolution) e l’illusione dell’indipendenza energetica da parte degli Stati Uniti (non così facile a raggiungersi all’abbassarsi del costo del greggio), alla diminuzione di richiesta da parte delle economie emergenti, al cambiamento dei rapporti internazionali.

Questo per dire che la complessità dell’interrelazione fra i numerosi attori se da una parte rende difficile fare previsioni attendibili sul futuro del mercato dall’altra apre opportunità fino a poco tempo fa nemmeno previste: cosa comporterà la nuova politica di distensione verso l’Iran in termini di politica energetica ? dove finirà il gas naturale del Qatar, se gli Stati Uniti ne diminuiscono le importazioni ?

Attualmente il nostro fabbisogno di gas e greggio è così suddiviso per paesi fornitori (clicca sui grafici per ingrandire):

origineGASxItalia

 

 

 

origineGREGGIOxItaliaEstraiamo poco più del 11% di gas sul territorio italiano
(in  totale, entro le 12miglia circa il 3%

 

 

e ancora meno greggio, meno del 10%

Ma dipendiamo fortemente da pochi fornitori, Russia in primis.

Secondo il rapporto ISPI, va rivisto completamente l’attuale modello delle politiche energetiche a favore di una maggiore flessibilità integrando i sistemi energetici nazionali in chiave europea tenendo presente che se i paesi importatori hanno bisogno di comprare petrolio e gas, analogamente, i paesi produttori hanno assolutamente bisogno di vendere, non si deve quindi parlare di dipendenza ma, più correttamente, di interdipendenza.

Va quindi rivisto l’intero modello e vincolare le attuali concessioni già in essere al rinnovo automatico è non solo un errore giuridico (senza rinnovo non sono più concessioni) ma addirittura strategico.

Ultimo punto di cui tanto si discute, e che merita qualche considerazione, è la questione inquinamento.

Nella parte che il referendum chiede di abolire si riporta testualmente “… nel rispetto degli standard di sicurezza e di salvaguardia ambientale.” ma chi verifica eventuali violazioni e come interviene ? La questione è, anche in questo caso, complessa. Parte delle valutazioni ambientali sono fatte in base alle comunicazioni che gli stessi concessionari mandano agli enti di controllo.

Uno dei filoni di indagini della Procura di Potenza è infatti relativa al traffico e smaltimento illecito di rifiuti nel centro di Viggiano in Val d’Agri, naturalmente aspettiamo la fine dell’inchiesta del fare altri tipi di considerazioni ma l’accusa è che i dirigenti dell’impianto sapevano di sforamenti delle emissioni oltre i limiti di legge ma “cercano di ridurre il numero di comunicazioni sugli sforamenti invece di incidere direttamente sulla causa del malfunzionamento o dell’evento” allo scopo di “non allarmare gli enti di controllo”.

Aspettiamo i giudici per sapere se l’accusa è fondata ma discutiamo il principio: il controllore aspetta che il controllato gli dica se rispetta la legge ? Ma ha senso ?

Greenpeace ha pubblicato uno studio sull’inquinamento provocato dall’attività estrattiva in Adriatico al quale ENI ha risposto con un comunicato stampa nel quale contesta le conclusioni di Greenpeace riferendosi ad analoghe analisi di ISPRA (commissionate da ENI) che non rileverebbero rischi per l’ambiente.

E’ un tema complesso, che richiede competenze non alla portata di tutti anche solo per capire il lavoro degli esperti,
ma non è questa la richiesta referendaria. 

 

 

Il referendum chiede se è giusto
abolire le concessioni senza limiti di tempo
recentemente introdotte,

che di fatto concedono a taluni privati,
solo perché storicamente concessionari,
beni che sono di tutta la collettività.

Io a questa domanda il 17 aprile risponderò SI.